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2024-03-28 22:40

Il grande scasso

BREVE STORIA DELL’ARATRO

Marcello Fagioli, ricercatore agricolo, ha inviato alla redazione de l’Astrolabio due brevi storie, rispettivamente sull’aratro e sulla tecnica della semina diretta o “no till”, chiedendone la divulgazione. Ritenendoli interessanti, abbiamo deciso di pubblicarli assieme ad un commento del nostro esperto di sostenibilità.


Breve storia dell'aratro
di Marcello Fagioli

L'agricoltura è nata tanto tempo fa. Forse 10.000 anni. Per prima cosa l'uomo riuscì a domesticare animali selvaggi e questo aiutò a renderlo sedentario. L'uomo, più o meno sedentario, iniziò ad osservare il ciclo delle piante, la loro crescita, la formazione dei fiori e dei semi, la risemina ed il nascere delle nuove piante, ed un uomo di genio se la ingegnò per raccogliere semi e nasconderli nel suolo ed aspettare la formazione di nuove foglie, semi e tuberi che in tal modo poteva ottenere nella quantità a lui necessaria e che poteva inoltre conservare per il resto dell'anno. Era nata la prima era dell'agricoltura.

Poi, un bel giorno, un altro genio immaginò di usare un residuo del tronco di un albero per aprire un solco e, per lavorare meno, fece trainare il tronco da uno dei suoi animali domestici o quasi. Era nato l'aratro di legno, che poi fu modificato in mille modi, col passare dei secoli.

Nell'età del bronzo si fecero aratri di metallo, che duravano più tempo ed erano qualcosa di simile a ganci che raschiavano la superficie della terra e, sempre col passare dei secoli, si unirono altre parti di legno, poi di metallo che rovesciavano il pane di terra, eliminando in tal modo le erbe spontanee dannose al raccolto. Passarono millenni e nel 1600-1700 DC gli aratri erano già quasi tutti di metallo e per di più potevano essere trainati da macchine a vapore e poi da trattori simili ai nostri moderni. Era la seconda era dell'agricoltura.

Poi, nei due secoli seguenti, l'agricoltura si sviluppò in maniera impensabile. Forse dobbiamo al genio di Mendel e di Pasteur, alle nuove specie vegetali venute dall'America, l'essere riusciti a rendere bugiarde le ipotesi di Malthus che promettevano fame, dovuta alle crescita in maniera geometrica della popolazione umana.

Oggi abbiamo l'ingegneria genetica e, presto, potremo fabbricare in laboratorio piante, o meglio organismi capaci di produrre gli alimenti a noi necessari, con le qualità che riterremo più opportune.

E l'aratro accompagnò sempre la crescita delle civilizzazioni. All'inizio realizzava un graffio sulla superficie del suolo, appena sufficiente a ricevere i semi. Poi l'uomo costruì aratri che lavoravano sempre a maggiore profondità, sino ad ottenere il taglio di una zolla sufficientemente profonda per essere rovesciata e seppellire così la vegetazione spontanea. Poi si volle ottenere una profondità di lavoro sempre maggiore per modificare la struttura naturale del suolo ed ottenere la penetrazione e conservazione delle piogge in profondità ed esporre all'aria, all'ossigeno e al calore dell'estate le zolle ed ottenere la loro disgregazione e la solubilizzazione delle sostanze nutritive. E In tal modo aumentava l'erosione del suolo e si andava verso la desertificazione e desertizzazione di sempre maggiori superfici.

Quanto accadde nella prima metà del '900, in America del Nord, generò un allarme mondiale e maggiore interesse per l'erosione eolica e finalmente si cominciò ad intendere che forse era meglio non modificare la naturale struttura del suolo e che le piogge potevano essere conservate in profondità mantenendo la superficie coperta con residui vegetali .

E si parlò di riduzione delle rimozioni del suolo con un minimo di lavori, e si usarono aratri di nuove forme, aratri a disco, erpici ed altri attrezzi, sempre con l'idea che il suolo doveva essere rimosso dall'uomo per fare infiltrare l'acqua della pioggia ed aumentare la fertilità.

Ma alcune semplici esperienze e l'uso di erbicidi per controllare la vegetazione spontanea, dimostrarono quanto fossero sbagliate quelle idee che dominarono per millenni l'agricoltura. La migliore struttura del suolo è la naturale, che permette, inoltre, la facile penetrazione delle radici. La migliore infiltrazione e conservazione dall'acqua di pioggia si ottiene lasciando in superficie i residui delle coltivazioni, come avviene nei boschi.

E nacque la semina diretta o labranza cero o no tillage o sod seeding che, con la fitotecnica, l'ingegneria genetica e la fitochimica domina l'attuale agricoltura.

E l'aratro fu abbandonato, arrugginito ed ormai inutile, in un angolo del campo.

 

Ritorno alla preistoria. Nascita della “semina diretta”
di Marcello Fagioli

L’uomo divenne agricoltore quando imparò a fare piccoli buchi nel terreno ed a riporvi i semi. Poi qualcuno costruì una specie di aratro capace di aprire un piccolo solco superficiale. Poi furono inventati gli aratri veri, prima di legno, poi d’acciaio.

E Newton e Leibniz insegnarono a calcolare le forze ed i movimenti delle zolle che si rovesciano su se stesse, coprendo di terra la vegetazione spontanea. Aumentò così, enormemente, la produzione agricola ma aumentò anche l’erosione del suolo.

Nel 1964, io stavo già lavorando in una Stazione Sperimentale Agricola, in Argentina ed avevo disegnato alcuni esperimenti per approfondire la conoscenza della dinamica dell’acqua nel suolo. Il disegno sperimentale comprendeva anche parcelle con colture seminate su terreno arato e non arato. Secondo quanto previsto le piante coltivate avrebbero dovuto crescere bene, nelle parcelle arate e male, in quelle non arate. Ricordo ancora la mattina quando l’incaricato del campo, con una faccia molto preoccupata, si precipitò nel mio ufficio e mi chiese: - “Dottore, come faccio io a seminare in un suolo non arato?” - Lo rassicurai spiegandogli lo scopo e la maniera di procedere e dicendogli che avremmo controllato la crescita della vegetazione spontanea mediante l’uso di prodotti chimici.

Le cose andarono, all’inizio, come avevamo previsto. Le piantine nacquero stentatamente nelle parcelle non arate. Lo sviluppo della vegetazione migliorava sensibilmente man mano che aumentava la profondità della rimozione del suolo. Alcuni professionisti, dipendenti di grandi società dedicate all’agricoltura, si mostrarono interessati a questa ricerca. Venivano a visitarmi di quando in quando ed io li guidavo sino al campo sperimentale. Non portavo con me il disegno dello stesso perché i trattamenti si potevano intuire dalla differenza in altezza della vegetazione.

Ma un giorno, dopo qualche tempo dalla semina, una volta arrivato con alcuni ospiti al campo sperimentale, non fui più in grado di distinguere le parcelle con e senza rimozione del terreno. Rimanemmo tutti molto meravigliati. Ancor più io lo fui, quando ottenni i rendimenti in grano corrispondenti ai diversi trattamenti. Non c’erano differenze apprezzabili tra il rendimento delle parcelle arate e non arate. Meglio non riportare i commenti del personale della Stazione Sperimentale. Il più benevolo era quello che mi consigliava d’andare in manicomio, se credevo davvero di poter seminare in quella maniera i campi della zona.

L’esperimento fu ripetuto negli anni seguenti, ma era molto difficile far accettare la filosofia di “questa nuova” e “preistorica”, tecnica colturale. É naturale… dopo i millenni nei quali era stato usato l’aratro! Ora la semina su terreno non arato è molto diffusa nella “Pampa” e, per quanto ne so, anche in Africa e in altre parti del mondo. Si chiama “siembra directa”, “no till”, “no tillage”, “labranza cero”.

Aiuta molto a risolvere il problema della conservazione del suolo, specialmente nei paesi nei quali è rimasto qualcosa da conservare. Non ha avuto molta diffusione in zone dell’Asia e dell’Europa, dove l’uso millenario dell’aratro ha causato già tutta l’erosione che era possibile provocare. Ora si parla molto di desertificazione ed erosione. Ma non bisogna dimenticare che, quando gli spartani difendevano le Termopili, la larghezza del passaggio occupato da quei trecento eroi, non era molto grande. Ora, tra un lato e l’altro del valico delle Termopili, ci sono chilometri.

Questa è l’erosione.

 

La semina diretta non è sempre l’unica strada
di Vittorio Grimaldi

L'articolo è molto interessante e scritto bene. Strano che non conosca l'autore, dato che è proprio il mio campo. Contiene però un grave errore, una omissione, che andrebbe corretta, forse dovuto al fatto che l'autore ha lavorato in Argentina, una terra con grandi pianure naturali (paragonabili a quelle del Nord America, della sterminata Russia-Siberia, di alcune zone dell'Australia, i moderni giardini del grano e dell'allevamento bovino, dove il no-tilling si sta affermando).

Però in altri paesi, soprattutto in quei terreni vulcanici, con scarse piccole pianure alluvionali ma apprezzabili altipiani profondamente incisi, il grande aratro è stato ad un certo punto assolutamente necessario, e lo sarebbe stato anche nel caso fosse stato già noto il no-tilling.

In questi terreni, solo potenzialmnte molto fertili, climaticamente buoni per il grano (farro) ma soprattutto per l'olio, il vino e i legumi, dove grazie al clima e al passaggio dei popoli ha albergato la civilta' (ad esempio, l'altopiano di Volsini tra Acquapendente e Orvieto), la coltivazione (no-tilling o altro) era difficile; le ceneri delle eruzioni dei grandi vulcani, spesso esplosive e parossistiche, si erano sparse in ogni direzione, in diversi strati, compresse dal loro stesso peso, ed avevano formato una scorza di humus duro: quella più antica fatta di tufo, la meno antica di pozzolana, la più recente di cappellaccio. Gli etruschi e gli italici si dovettero limitare a coltivare nelle zone alluvionali, poche e piccole nell'Italia centro-meridionale, con le coste malariche inutilizzabili e la lunga linea di terreni vulcanici dalle Colline Metallifere Toscane fino al Canale di Sicilia (vedi mappa sul libro dei disastri naturali). In cambio, ne ebbero un ottimo materiale da costruzione con cui fondare e costruire Roma. Per il grano i romani si rivolsero alla Sicilia, all'Egitto, al Nord Africa, alla Spagna. Nel periodo fra il Medio Evo e l’Età Moderna, alcune zone d’Italia furono sì considerate “patria del grano”, come la stessa Roma, ma si trattava di una coltivazione marginale per una popolazione che usava farina di castagne e ad un certo punto, provenienti dalle Americhe, patate e mais.

Fino addirittura all'800, queste parti d'Italia, coltivabili con difficoltà e fatica, furono il regno della pastorizia ovi-caprina dapprima, bovino-bufalina dopo, come ancora indicato dai toponimi (semi-nomadica dei tratturi) e, dalla tradizione alimentare della ricotta e della mozzarella, dall'uso di termini come pecunia (pecus = pecora). Verso la fine dell'800, primi del 900, ci fu il "grande scasso" nell'Italia centro-meridionale: qualche vecchio contadino ancora se lo ricordava qualche anno fa. Tre ondate di utilizzo del grande aratro: dopo l'Unita' d'Italia, agli inizi del '900 con l’uso dei primi trattori moderni, e sotto il fascismo (con la “battaglia del grano”). Il cappellaccio venne rotto e frantumato, resi humus,  e comincio' l'agricoltura moderna; si aggiunsero anche i terreni ottenuti con le grandi bonifiche delle paludi, delle maremme, dei laghi superficiali.

Un grande cambiamento del paesaggio, un intervento sull'ecosistema, ma anche la fine del latifondo, della manomorta, della fame dei butteri, di condizioni di vita durissime ("tutti mi dicon ma-remma maremma, ma a me mi sembra una maremma ama-ra, l'uccello che ci va perde la penna ..."), l'arrivo delle riforme agrarie, l'igiene, le scuole rurali, la fine della malaria. Ci sono stati dei prezzi da pagare: soprattutto nei vasti terreni supersfruttati e soggetti a erosione (in Basilicata, ad esempio). Ma il percorso, tipico dell'Italia e di qualche altro paese mediterraneo (la California come distinta dal Texas), ha dato risultati positivi: agricoltura di qualità.

Oggi diamo tutto per scontato. E magari pensiamo che il no-tilling sia l'unica strada. Ma le strade sono tante e diverse, adatte ai luoghi e ai tempi, tutte che vanno usate con accortezza nel modo giusto. In Italia centro-meridionale un cambiamento fu reso possibile dal grande aratro con il grande vomere. Andrebbe ricordato insieme a quello che dice il collega argentino.