RIFIUTI URBANI
Elaborando i dati più aggiornati, compresi quelli dell’ultimo rapporto sui rifiuti dell’ISPRA, l’autore torna a dimostrare l’insussistenza delle tesi di chi ancora oggi si oppone agli impianti di termovalorizzazione con la scusa che sarebbero alternativi al riciclaggio di materia. È vero il contrario: il recupero di energia è complementare al riciclo e alternativo alla discarica.
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Non chiedete mai a un economista di giudicare se qualcosa è migliore o peggiore di qualcos’altro. L’analisi economica non ragiona per assoluti, ma, come si usa dire, “al margine”. Davanti a due alternative mutuamente esclusive non si chiederà mai qual è la migliore, ma semmai se dato lo stato di partenza, sia desiderabile ridurre un po’ una delle due e incrementare un altro po’ l’altra.
Questa forma mentis permette all’economista di evitare di cadere in un comune errore, quando si ragiona di soluzioni al problema dei rifiuti: quello di confrontare tra loro riciclo e recupero energetico, come se fossero alternative l’una all’altra. È invece necessario comprendere che si tratta di soluzioni tra loro complementari; l’eventuale competizione riguarda al più qualche frazione marginale.
Possiamo discutere se valga la pena di puntare a un target di riciclo un po’ più ambizioso di quello attuale, ma non immaginarci un mondo in cui la soluzione al problema rifiuti provenga interamente dal riciclo e/o dalla prevenzione. Almeno, finché nel ciclo dei rifiuti entreranno materiali compositi e flussi eterogenei difficili da ricondurre alle matrici originarie. E almeno, si intende, di voler ridurre al minimo l’uso della discarica. L’evidenza empirica è fin troppo chiara: non esiste alcun Paese che sia riuscito ad azzerare il ricorso alla discarica senza ricorrere sia al riciclo che all’incenerimento. Si guardi la fig.1, nella quale sono posizionati i diversi paesi UE e alcuni paesi OECD in uno spazio avente come coordinate la frazione incenerita (asse orizzontale) e quella riciclata (asse verticale). Tra parentesi il dato relativo alla frazione inviata a discarica.
Per i paesi UE è stato utilizzato il dato Eurostat più recente (2022). Leggermente meno recenti sono i dati relativi agli altri paesi OECD. Per l’Italia si utilizza sia il dato riportato da Eurostat sia quello che risulta dal più recente rapporto di ISPRA (riferito al 2023). Per quest’ultimo abbiamo considerato anche i flussi esportati o messi in riserva (essendo questi flussi destinati in parte consistente all’incenerimento.
Nella voce “recupero di materia” sono incluse tutte le forme di riciclo diretto (nuovi materiali che rimpiazzano quelli vergini), tutto il recupero della materia organica come ammendante agricolo, ma anche le numerose forme di recupero di materia secondaria, come le massicciate stradali, le intercapedini e i cappotti termici per gli edifici, per non dire della copertura delle discariche. Nella voce “recupero energetico” si intendono invece tutte le forme di combustione (incenerimento del rifiuto indifferenziato “tal quale”, termovalorizzazione della frazione secca della selezione meccanica, utilizzo di CSS in impianti industriali)
La linea verde raggruppa tutti i paesi che inviano a discarica meno del 10% del totale dei rifiuti (ricordiamo che questo è l’obiettivo che la normativa europea prescrive di raggiungere entro il 2035). Tutti i paesi che hanno conseguito l’obiettivo inceneriscono come minimo il 30% dei RU (la sola Slovenia fa eccezione, ma va rilevato che si tratta di un Paese di piccole dimensioni la cui principale città ha meno di 300.000 abitanti). Ciò non vuol dire che non riciclino, anzi: il recupero di materia oscilla tra il 40 e il 70%, con la sola eccezione del Giappone (la cui struttura geografica e urbanistica si può ritenere speculare a quella slovena).
Il dato italiano come sempre tradisce lo squilibrio nord-sud. Possiamo concentrarci su discarica e incenerimento (assumendo che il recupero di materia rappresenti il complemento a 100). Preso a sé, il Nord replica la situazione centroeuropea (discarica sotto il fatidico 10%, incenerimento al 30%), mentre il Centro e il Sud smaltiscono in discarica oltre due volte di più (23%) e inceneriscono solo l’11,6%.
A livello regionale il dato è altrettanto chiaro, con Lombardia, Emilia-Romagna, Friuli Venezia Giulia e Provincia di Bolzano già rispettose del target europeo, e abbondantemente al di sopra del 30% (si osservi che il dato ISPRA, su cui si basa la tabella, non tiene conto qui dei flussi interregionali e internazionali (il Friuli Venezia Giulia, ad esempio, esporta notevoli quantità di “combustibile da rifiuti” verso i paesi dell’Europa centro-orientale; la Campania e il Lazio destinano a loro volta flussi importanti verso le discariche delle regioni vicine ma anche verso gli impianti di recupero della frazione organica o i termovalorizzatori.
Il riciclo può e deve fare una parte fondamentale e sostanziale, non per niente l’obiettivo da raggiungere (65% del totale dei RU generati) è così sfidante. Ma è tecnicamente impossibile, economicamente inefficiente, e perfino peggiore per le emissioni di CO2, immaginare di spingersi oltre certe soglie. Rimando qui per brevità a un mio precedente articolo già pubblicato su L’Astrolabio . Oltre quella soglia, l’alternativa è tra termovalorizzazione e discarica; dunque, è fuorviante confrontare il riciclo con la termovalorizzazione, come se le due soluzioni fossero in competizione per gli stessi flussi di rifiuto.
Anche in questo caso, l’evidenza del dato regionale è chiarissima. Le regioni che inceneriscono di più sono anche quelle con il tasso di raccolta differenziata più elevato (fig.3); in compenso, si evidenzia una debolissima correlazione tra il tasso di raccolta differenziata e la frazione inviata a discarica (fig.4).
Come si può leggere nell’ultimo rapporto di ISPRA presentato a dicembre, tra il 2017 e il 2023, mentre la raccolta differenziata è cresciuta di 11 punti percentuali (dal 55 al 66%), il riciclo si è incrementato solo di 6 punti (dal 44 al 50%) e staziona da anni intorno al 49-50%: ciò a testimonianza dei rendimenti decrescenti della raccolta differenziata.
La fig.3 evidenzia la crescente divaricazione tra la raccolta differenziata – quasi raddoppiata dal 2010 al 2023 – e il riciclo effettivo, che aumenta dal 34% al 50,8%. L’obiettivo europeo, ammesso che riusciamo ad arrivarci, è del 65%: andare oltre quei valori è difficilmente immaginabile. La raccolta differenziata può anche spingersi vicina al 100% ma, a valle della raccolta, la quantità di scarti tende ad aumentare in proporzione man mano che sale la quota di differenziata. Sono sempre rifiuti, anche se essendo diventati “speciali” possono illudere qualcuno di essere spariti, quando invece sono solo diventati il problema di qualcun altro.
Purtroppo, i dati forniti da ISPRA a questo proposito più che informare confondono. I rifiuti in uscita dagli impianti di trattamento intermedio, infatti, vengono contabilizzati nella famigerata classe 19.20.20 (“rifiuti da attività di trattamento rifiuti”) e pertanto sommati più volte in funzione del numero di fasi intermedie; il dato risulta ulteriormente sporcato dalla presenza di flussi transfrontalieri e dagli stoccaggi intermedi.
Il “trilemma”, insomma, è evidente. Se il riciclo non può ragionevolmente andare oltre una determinata soglia (diciamo ottimisticamente il 65% augurandoci di riuscire a raggiungerlo e la discarica va eliminata se non proprio azzerata, è necessario coprire con altre soluzioni quello che manca per arrivare a 100%.
Allo stato attuale della tecnologia, l’incenerimento nelle sue varie forme continua a rappresentare la soluzione più affidabile. Diverse tecnologie alternative si affacciano all’orizzonte – si parla di “combustione senza fiamma”, di “waste-to-chemicals” e altre simili: tutte promettenti e meritevoli di essere prese in considerazione e sperimentate, ma che tuttavia devono ancora dimostrare la fattibilità alla scala industriale e lasciano parecchi dubbi ancora irrisolti in tema di affidabilità e soprattutto di costi. Non è nemmeno chiaro se siano davvero vantaggiose sotto il profilo delle emissioni.
Oggi, gli impianti di incenerimento che utilizzano le migliori tecnologie disponibili già raggiungono emissioni inferiori di un ordine di grandezza rispetto alle soglie massime fissate dalla normativa, a loro volta estremamente stringenti e severe. Non c’è alcuna prova che vivere in prossimità di uno di questi impianti sia causa di effetti sanitari anche solo superiori alla soglia di rilevabilità.
La qualità dell’aria nelle aree urbane, sebbene molto migliorata rispetto a qualche decennio or sono, ancora non ha raggiunto i livelli di purezza desiderati. Stupisce che non si riconosca che le fonti di questo problema non sono certo i termovalorizzatori, ma piuttosto il traffico, gli impianti di riscaldamento, i processi industriali (le cui emissioni devono soddisfare standard nettamente meno severi di quelli applicati ai termovalorizzatori). Il contributo aggiuntivo di un termovalorizzatore moderno all’inquinamento atmosferico è al di sotto della soglia di percepibilità. Un termovalorizzatore ben inserito potrebbe addirittura migliorare la qualità dell’aria in città, permettendo di sostituire un notevole numero di impianti di climatizzazione domestici, molto più inquinanti in aggregato di quanto non lo sia l’impianto.
Rimane il problema della CO2: se e quando le tecnologie alternative (waste-to-chemicals) si dimostreranno fattibili alla scala industriale, si vedrà. Nel frattempo, le emissioni degli impianti di incenerimento sono poco più della metà rispetto alla discarica (800kgCO2/TRU contro 1.400[1]). L’unica cosa finora certa è che la loro asserita assenza di emissioni non è sufficiente a superare il problema nimby – nei due casi in cui si sono proposti impianti di questo tipo la mobilitazione dei territori è stata altrettanto agguerrita che per gli impianti di incenerimento.
A forza di attendere che l’innovazione tecnologica metta a disposizione soluzioni migliori di quelle già disponibili, insomma, si rischia di prolungare all’infinito una cronica situazione di crisi, fallendo i traguardi posti dalle direttive europee, o raggiungendoli solo tramite l’esportazione dei rifiuti verso i paesi dotati di impianti. Una situazione già vista con l’energia nucleare, dove l’attesa di nuove generazioni di impianti a fissione, o magari della fusione, pregiudica la messa in campo di soluzioni basate sulle tecnologie già esistenti e affidabili.
La conclusione del ragionamento è, credo, piuttosto chiara. Se l’Italia intende prendere sul serio l’obiettivo di ridurre al di sotto del 10% del peso totale la destinazione del rifiuto a discarica, non potrà conseguire questo obiettivo senza un ruolo – residuale, ma determinante – dell’incenerimento con recupero di energia. In Italia, gli impianti esistenti consentono alle Regioni del Nord di raggiungere l’obiettivo europeo con 10 anni di anticipo, e di assorbire anche un flusso non trascurabile di RU originati nel centro-sud, ma in misura non sufficiente a colmare del tutto il gap. Una stima del fabbisogno impiantistico ancora da realizzare va oltre gli obiettivi di questo articolo, ma è certamente un tema non eludibile nel quadro della Strategia Nazionale in tema di rifiuti ed economia circolare.
*Antonio Massarutto, DIES, Università di Udine
[1] Fonte del dato: Amici della Terra, L’impatto della gestione dei rifiuti sulle emissioni di gas serra, Analisi dei dati 1990-2019, https://www.amicidellaterra.it/images/all4climate2021/20-09-2021_rifiuti...