IL PONTE SULLO STRETTO DI MESSINA
Riprendiamo dalle pagine di inOltre Inoltre2024@gmail.com due articoli con posizioni opposte sul Ponte di Messina, questo di Alessandro Tedesco, e quello di David Sayn, da leggere in parallelo, a riprova che può esistere un confronto non banale e ragioni profonde - contro e a sostegno - su un progetto da sempre controverso, emblematico di due visioni diverse dell’esistenza, del progresso e dell’ambiente.
In Copertina: Ponte sullo Stretto di Messina Rendering del progetto (Imagoeconomica)
L’analisi filosofica proposta sull’impatto del Ponte sullo Stretto dal collega David Sayn è un esercizio intellettuale di notevole spessore, che ha il merito di sollevare il dibattito da un piano puramente tecnico a uno esistenziale. Tuttavia, proprio in questa sua elevazione, rischia di scivolare in un estetismo nostalgico, una prospettiva che, pur ammantandosi di una profonda sensibilità, si astrae dalla responsabilità etica verso il luogo e le vite che lo popolano.
La sua argomentazione erige un muro tra l’essere umano e la sua capacità di trasformare il mondo. Eppure, una visione ecologica più profonda, che potremmo definire “geocentrica”, non impone l’inazione, ma ci chiede di agire come “cittadini della comunità biotica”, per citare il filosofo Aldo Leopold.
Secondo la sua “Etica della Terra”, un’azione è giusta quando tende a preservare “l’integrità, la stabilità e la bellezza” dell’ecosistema. In quest’ottica, il Ponte diventa un’infrastruttura a difesa della natura: un intervento chirurgico che, eliminando la ferita cronica del traghettamento inquinante, restituisce integrità e stabilità all’ecosistema dello Stretto.
Un approccio pragmatico condiviso da James Lovelock, noto per l’ipotesi Gaia. Da ambientalista atipico, Lovelock era favorevole a interventi tecnologici su larga scala se questi contribuiscono a ridurre le emissioni globali. Nel suo pensiero, se il progetto risulta integrato in un sistema di trasporti efficienti e a basse emissioni, andrebbe approvato come mezzo per adattarsi a un pianeta “in febbre”, dove l’umanità deve concentrarsi su soluzioni ingegneristiche audaci piuttosto che su un romanticismo antimoderno.
Proviamo allora a esaminare punto per punto i presupposti di questa visione nostalgica, mettendoli a confronto con una lettura alternativa dei fatti e dei concetti. Quanto ai concetti di perdita culturale e rischio di involuzione, ho già avuto modo di sviscerare questi argomenti in due precedenti interventi apparsi su queste stesse pagine.
La Soglia come Ponte, non come Muro
L’autore vede nel Ponte un atto di arroganza che viola la sacralità della “soglia”. Ma questa è una visione statica e conservatrice della soglia stessa. Se ogni attraversamento di un limite naturale fosse un atto di tracotanza, non dovrebbero esistere ponti tra culture, popoli e nazioni.
La stessa idea di multiculturalità e di cosmopolitismo si fonda sulla volontà umana di “gettare un ponte”, di creare un passaggio dove prima c’era una divisione. L’alternativa è l’isolamento, la chiusura in un’identità che si crede perfetta solo perché non si confronta mai con l’altro. Il vero atto di arroganza, forse, non è collegare, ma pretendere che il mondo si fermi per preservare la nostra illusione di compiutezza.
L’Esperienza dello Stretto: Poesia dell’Inquinamento o Prosa della Sostenibilità?
Viene romanticizzata l’esperienza della traversata in traghetto come un momento di “pienezza sensibile”. Questa visione estetizzante ignora una verità brutale: decenni di traffico navale intensivo rappresentano un’aggressione costante all’ecosistema dello Stretto. Il momentaneo ritorno della vita marina durante il lockdown del 2020 non è stato la prova di un idillio, ma la diagnosi inequivocabile di una malattia cronica.
Un vero “amore per il luogo” (oikofilia) non può celebrare la poesia di un’esperienza che ha come prezzo la distruzione dell’humus naturale. La vera “cura” del luogo non è preservare un rito inquinante, ma scegliere la prosa, forse meno romantica ma più etica, della sostenibilità che un collegamento stabile garantirebbe.
Verrebbe poi da chiedersi dove fosse la difesa del genius loci quando le nostre coste, siciliane e non, venivano sfigurate da decenni di cementificazione selvaggia e abusivismo. Preoccuparsi oggi della “poesia” di un attraversamento inquinante suona stonato di fronte a quella tragedia. Lovelock sosteneva interventi che “comprano tempo” per l’umanità contro il riscaldamento globale e, in questo senso, il Ponte potrebbe essere interpretato come un’infrastruttura che rafforza la resilienza umana senza sovraccaricare ulteriormente il sistema Gaia con combustibili fossili diffusi.
Nel suo pensiero, se il progetto risulta integrato in un sistema più ampio di trasporti efficienti e a basse emissioni, lo approverebbe come mezzo per adattarsi a un pianeta “in febbre”, dove l’umanità deve concentrarsi su soluzioni ingegneristiche audaci piuttosto che su un romanticismo ambientalista antimoderno. In sintesi, Lovelock lo vedrebbe come un’opportunità per uno sviluppo umano che rispetta i limiti di Gaia, purché i benefici netti in termini di riduzione delle emissioni e efficienza superino i costi locali, un’analisi che la vasta documentazione a corredo del progetto permette di approfondire in altra sede.
Il “Non-Luogo” è l’Abbandono, non la Crescita
L’autore sostiene che il Ponte creerebbe un “non-luogo” anonimo. È vero il contrario. I non-luoghi sono gli spazi dell’abbandono e della transizione senza identità. Un’opera iconica, unica al mondo, non è un non-luogo: è un landmark, un generatore di nuova identità, come lo è stato il Golden Gate citato dallo stesso autore. Il vero non-luogo è una stazione di Villa San Giovanni o di Messina degradata e inefficiente, dove migliaia di persone perdono ore in attesa. Il Ponte, integrando le due sponde in un’unica area metropolitana, non cancella il tópos, ma lo restituisce ai suoi abitanti, trasformandolo da barriera a spazio di vita e di crescita.
Visione Pragmatica, non Tecnocrate
La critica a una presunta “visione tecnocratica” confonde il mezzo con il fine. Come insegna Aristotele, la tecnica (techne) senza la saggezza pratica (phronesis) è cieca. Ma una tecnica guidata dalla saggezza, volta a migliorare il benessere della comunità (polis), è l’essenza stessa di un buon governo. Il Ponte non è la celebrazione della tecnica fine a se stessa, ma l’applicazione pragmatica della più alta ingegneria per risolvere un problema secolare di isolamento e inefficienza. È praxis su scala monumentale: un’azione deliberata per il bene comune.
Un Simbolo Nuovo per un Luogo Rinato
L’autore lamenta la futura scomparsa del simbolo legato ai miti di Scilla e Cariddi. Ma i simboli non sono immutabili; evolvono o muoiono. Un simbolo basato sulla paura e sul pericolo può e deve lasciare il posto a un simbolo nuovo. Il Ponte, sorgendo su uno Stretto finalmente più pulito dal traffico dei traghetti, non distrugge un simbolo: ne crea uno più potente per il XXI secolo. Diventerebbe il simbolo di una terra che supera i suoi mostri – non più quelli mitologici, ma quelli reali dell’immobilismo, della rassegnazione e dell’isolamento.
La vera cura è un atto di responsabilità verso il suo futuro. La critica all’opera, pur partendo da una lodevole sensibilità, finisce per difendere non il genius loci dello Stretto, ma la poesia di una malattia cronica, scambiando l’inquinamento dei traghetti per un rito da preservare.
Scegliere di non intervenire non è un atto di rispetto, ma di abbandono. Significa condannare un ecosistema a un degrado lento e i suoi abitanti a un isolamento che nessuna nostalgia può rendere nobile.
La sfida che il Ponte ci pone non è tra tecnica e natura, ma tra due diverse idee di umanità: una che si ritrae nel culto di un passato che non può più tornare, e una che accetta il compito difficile, ma necessario, di costruire il futuro. È la scelta tra conservare un simbolo vuoto e dare vita a un simbolo nuovo: quello di una terra che, finalmente, smette di attendere il nulla e sceglie di diventare artefice del proprio destino.
*Alessandro Tedesco insegna italiano e scrive per InOltre